giovedì 15 marzo 2012

Capitalismo o costituzione

di Paolo Solimeno (questo pezzo solo apparentemente vetero è uscito il 16 febbraio 2012 su Asilo Politico, inserto settimanale del Nuovo Corriere di Firenze - gli altri articoli ora on line su www.ilnuovocorriere.it ) La convivenza fra capitalismo e democrazia costituzionale è divenuta ormai illusoria? E la Carta che dal 1948 promette una repubblica democratica fondata sul lavoro è un elenco di buone intenzioni, un programma rivoluzionario o un tentativo di regolare le spinte predatorie dei nazionalismi e del potere industriale e finanziario in funzione di una società pacifica, prospera egualitaria e plurale?
Purtroppo si può rispondere a questi interrogativi confermando la validità del disegno costituzionale solo in un ambito di ragionevolezza che i più miopi fautori del mercato senza regole sembrano rifiutare invocando ulteriore deregulation.
Il settore più devastato è quello del diritto del lavoro che in questi anni ha subito un deciso stravolgimento delle regole del confronto, contrattuale e giudiziale, fra impresa e lavoratore che è stato conformato dal Costituente sulla constatazione di una divisione sociale in cui il soggetto debole necessita di 1. diritti inviolabili, 2. strumenti di contrattazione, 3. facilità di accesso a tutele coercitive o riparatorie, il tutto in funzione dell’attuazione del principio di uguaglianza sostanziale tra i cittadini.
Una delle mutazioni più insidiose è realizzata con il tentativo di ridurre il Giudice del lavoro a certificatore della legittimità degli abusi perpetrati dai contratti e della inapplicabilità delle tutele ancora vanamente previste dalla legislazione nazionale, ma anche dall’art. 16 della Carta dei diritti UE.
Sappiamo - ce ne darà ennesima prova la Grecia - che le ricette dell’austerity conducono alla recessione. La crisi del sistema finanziario e bancario mondiale, quindi della struttura del capitalismo contemporaneo, può imputarsi all’avidità degli operatori e al fallimento dell’autodefinizione mefistofelica di “forza che perpetuamente pensa il male e fa il bene”, ci ricorda Giorgio Ruffolo.
Dopo che avremo appurato che “il bene” non si produce spontaneamente (ammoniva J.M. Keynes, ripete oggi Richard Posner), oltre ad esercitare la critica morale dovremo attrezzarci. Dovremo dotarci di regole che consentano l’esercizio delle libertà economiche nei limiti dei principi di dignità, libertà e sicurezza: è il caso emblematico dell’art. 41 Cost. che il Berlusconi thatcheriano voleva cambiare e che Monti e Fornero vogliono scavalcare esaltando la libertà d’impresa e chiedendo che si liberalizzi, si privatizzi, si riducano le tutele dei lavoratori.
Spetta a economisti e giuristi dire che l’art. 18 dello Statuto e l’art. 41 Cost. non impediscono lo sviluppo economico, spetta alla politica attuare la Costituzione vigente per contribuire a quella forma di democrazia in cui la separazione fra capitale e lavoro non genera disuguaglianza e sfruttamento.

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